Nel cuore pulsante di un ordinario giorno a Castel d’Azzano, la normalità aveva disegnato il suo velo rassicurante. Pochi, in quel momento di mezza giornata, potevano immaginare che un’attesa così comune e, per certi versi, attesa, potesse cedere il passo a un tremore così violento e definitivo.
Il piccolo centro, incastonato nella provincia di Verona, era da tempo il teatro silenzioso di una tensione montante. Al centro di tutto, un casale e la volontà ferrea dei suoi occupanti, la famiglia Ramponi, di resistere a ogni tentativo di allontanamento forzato.Sul posto, per adempiere a un mandato formale, erano presenti anche tre uomini delle forze dell’ordine, i Carabinieri, ignari che la loro missione di servizio si sarebbe trasformata in un episodio assurdo.L’aria, per un istante, si fece densa.
Poi, il silenzio che precede l’evento fu strappato da un boato inatteso. Fu un rumore sordo, metallico, un’onda d’urto che spezzò la quiete del paese e ridisegnò i contorni dell’edificio in un cumulo di macerie fumanti. L’azione fu immediata, chirurgica, lasciando dietro di sé solo la polvere del crollo e un’emergenza vitale di gravità assoluta.
Ma, dicono le fonti, ciò che precede tali fatti è a volte più agghiacciante dell’evento stesso.Poco prima che la struttura cedesse e che il paese rimanesse sospeso in un’attesa muta, c’era stato un gesto specifico della donna della famiglia, un atto che ora, a posteriori, risuona come un’agghiacciante e consapevole premonizione.
Qual era il piano nascosto dietro le mura di quel casale, e in che modo le parole pronunciate un anno fa da Maria Luisa Ramponi avevano preannunciato la paura di quel martedì? Il boato risuonato nella tranquillità della provincia non lasciava spazio a dubbi: si trattava di...