L’aborto spontaneo è pur sempre un evento doloroso, nonostante il suo frequente riscontro: si calcola, infatti, che tale esito riguardi una percentuale compresa tra il 31% ed il 35% sulla totalità delle gravidanze, con un lieve incremento per le donne al di sopra dei 40 anni ed una maggiore incidenza per il concepimento del primo figlio.
In questo caso, il corpo della mamma non ha mai messo in moto i meccanismi di trasformazione fisica per far crescere in sé una nuova vita, pertanto non può fare affidamento su una memoria cellulare pregressa nella formazione e nello sviluppo dell’embrione, rendendo concreto il pericolo di minaccia d’aborto.
Avviene, quindi, una sorta di selezione naturale nel riconoscimento automatico di difetti genetici o di malformazioni che non può prescindere dall’unione dei gameti; per tale ragione, la probabilità di abortire nel primo trimestre si riduce notevolmente quando si abbiano già dei figli.
Le cause dell’aborto spontaneo
La morte del feto (o dell’embrione, prima della fine del secondo mese) deve verificarsi entro la ventiseiesima settimana: superato tale periodo, è più corretto parlare di parto prematuro. Prima di soffermarsi sulle cause, genetiche e non, per cui ciò avviene, occorre distinguere tra:
• aborto spontaneo occasionale, riferito ad un unico episodio;
• ripetuto, quando si sia verificato per due volte consecutive;
• ricorrente, in presenza di tre interruzioni di fila.
La seconda e la terza ipotesi rientrano nella sfera della poli-abortività, che richiede indagini approfondite per arrivare alla radice del problema.
Come già anticipato, il rischio è più alto nelle prime 12 settimane, periodo nel quale si stima un’interruzione spontanea di circa il 15%-20% dei concepimenti; man mano che la gravidanza va avanti, tale probabilità diminuisce.
In questi primi tre mesi, le cause principali si configurano in una sospensione troppo ravvicinata del trattamento anticoncezionale rispetto al periodo dell’annidamento e, soprattutto, in una predisposizione ereditaria all’aborto interno, solitamente relativa a fattori di coagulazione mutati che favoriscono le trombosi placentari. Tale attitudine rientra nel novero della cosiddetta “abortività immunologica“, studiata approfonditamente dal compianto professor Fernando Aiuti.
Il sistema immunitario della donna identifica (erroneamente) il bambino come una sorta di corpo estraneo e non permette di attivare i meccanismi di tollerabilità che gli consentano di sopravvivere all’interno della placenta. Anticorpi antinucleo ed antifosfolipidici provocano dei danni che impediscono all’organismo in formazione di nutrirsi e lo portano alla morte.
Durante il secondo trimestre, invece, la ragione principale che conduce all’eventualità di interrompere una gravidanza è l’incontinenza cervicale: a causa di fibromi in situ o di precedenti interventi all’utero, hanno luogo delle contrazioni che spingono il feto al di fuori della cavità uterina, rendendo necessaria l’espulsione ambulatoriale del prodotto del concepimento.
Naturalmente non vanno dimenticati altri motivi, di natura situazionale o emotiva: situazioni molto stressanti, episodi di violenza all’interno o al di fuori delle mura domestiche, forti dispiaceri o, addirittura, l’interruzione volontaria di una gravidanza in passato possono favorire questa tragica eventualità.
Cosa fare subito in caso di sintomi
Qualche piccola perdita in gravidanza non deve destare alcun campanello allarme, soprattutto durante l’annidamento. Tuttavia, nel caso in cui si riscontrasse l’improvvisa comparsa di un abbondante flusso di sangue dalle parti intime accompagnato da dolori accentuati al basso ventre, in direzione delle pelvi, sarebbe bene rivolgersi ad un medico.
Si provvederà non solo ad una diagnosi clinica, ma anche ecografica, dalla quale risulterà, in caso di aborto spontaneo, l’assenza di un embrione vivo nella cavità uterina.
Il trattamento dipende da tre fattori:
• sintomatologia della paziente;
• quadro ecografico;
• periodo di riscontro delle anomalie.
A seconda delle situazioni, lo specialista valuterà se attendere che la donna provveda all’espulsione del prodotto del concepimento spontaneamente, oppure provvedere subito ad una revisione della cavità uterina (RCU), un intervento che rimuove il feto morto per aspirazione o raschiamento, previa dilatazione della cervice. A meno di complicazioni concomitanti, quest’operazione non richiede il ricovero: si effettua in day hospital previa sedazione profonda.
Quando si può provare ad avere un bambino dopo un aborto spontaneo
A questo punto, qualcuno potrà chiedersi quanto tempo occorre per affrontare nuovamente una gravidanza dopo un aborto spontaneo. In assenza di anomalie del sistema immunitario, bastano due-tre mesi, attendere la ripresa regolare del ciclo mestruale e riprovare a concepire.
In caso di poli-abortività immunologica, invece, la prescrizione di trattamenti a base di farmaci è a discrezione dello specialista. Per regolare il fattore di coagulazione degli anticorpi anti-fosfolipidi, si può propendere per una terapia con aspirina ed eparina, da iniziare prima della gravidanza e da concludere in concomitanza del parto.
Quanto agli anticorpi anti-nucleo, infine, c’è chi riscontra benefici dall’assunzione di cortisone a basso dosaggio per tre-quattro mesi, con immediata introduzione di aspirina ed eparina all’aumento del livello delle gonadotropine.