Nel 2011, sulla rivista Geophysical Research Letters, comparve un articolo che fece discutere la comunità scientifica. Due studiosi, il giapponese Nobuo Hurukawa e il birmano Phyo Maung Maung, analizzando i terremoti con magnitudo superiore a 7 dal 1918 lungo la faglia Sagaing, individuarono due aree particolarmente a rischio.
Tra queste, una «lacuna sismica» lunga 260 chilometri proprio nel Myanmar centrale. I due esperti ipotizzarono che un futuro terremoto di magnitudo 7,9 avrebbe potuto colpire la zona, mettendo a rischio la popolazione della nuova capitale costruita vicino alla faglia.
E così è stato: il recente terremoto del 28 marzo ha avuto proprio quell’epicentro, con una magnitudo di 7,7 e una rottura della faglia di 250 chilometri. Una previsione quasi perfetta che dimostra quanto la scienza avesse già lanciato un allarme anni prima, pur non potendo sapere esattamente quando sarebbe successo.
Non solo la magnitudo e la posizione dell’evento sismico sono state previste con sorprendente precisione, ma anche le conseguenze. Uno dei rischi principali, secondo i ricercatori, era la «liquefazione delle sabbie», un fenomeno che può causare il cedimento delle strutture costruite su suoli sabbiosi. Questo fenomeno si è effettivamente verificato, causando danni anche in aree lontane come Bangkok.
Gli studiosi avevano inoltre segnalato un secondo «buco» sismico a sud, nel Mare delle Andamane, che potrebbe essere la prossima area critica. Questo fa riflettere su quanto siano attuali le previsioni fatte più di un decennio fa, e su quanto ancora si debba fare per prevenire disastri simili in futuro.